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Il moto perpetuo di Giuseppe Langella

Il moto perpetuo di Giuseppe Langelladi LUCA RACHETTA

Il movimento continuo che anima i versi dei poeti suggerisce spesso l’idea di una condizione inquieta, di un vivere tormentato, di un “perpetuo volo” o di un “balenare in burrasca” di cardarelliana memoria attribuibili, più che a un evento doloroso, a quel sostrato malinconico  su cui galleggia, come su un mare di magma, la barca infuocata di un’esistenza minata da un’acuta sensibilità.

Il movimento, insomma, come un peregrinare alla ricerca disperata di qualcosa, il movimento come una condizione di instabilità perseguita quasi inconsapevolmente affinché la fissità dei punti di riferimento non esacerbi il senso di vuoto e di insoddisfazione, ingannato in questo modo dal variare dei paesaggi e delle prospettive.

Pur partendo da tale premessa, ci sembra tuttavia che “il moto perpetuo”di Langella comunichi prevalentemente altre suggestioni. Come il viaggio dantesco, il movimento è occasione di osservazione, di scoperta, di conoscenza;  è l’abbrivio di un processo che porta a cogliere le cose in modo differente e più profondo, come capita al viaggiatore che osservi dal finestrino di un treno lo scenario che gli si palesa al di fuori di esso:

Guarda come diventa uguale il mondo

quando l’onesta notte vi distende

i suoi veli di seta.

Non sai nemmeno se le luci rare

che scorgi di lontano,

basse sull’orizzonte

di cui hai perso il filo,

sono di barche cui sussurra il mare

annoso i suoi proverbi

o di finestre perse

sopra un aperto piano.

A quest’ora, neppure

le parole son poi tanto diverse,

le poche almeno che nell’ombra invasa

dal silenzio – dolci, gravi, esitanti –

non sciupino il fervore delle stelle.

Tutti i paesi hanno qui nomi di santi,

che più li leggi, più ti senti a casa.

(Voyage au bout de la nuit)

Nella lirica Nemo…in patria, il “fole volo” dantesco sembra avere un antefatto in una sorta di intervista a Ulisse, la cui astuzia è elemento molto meno suggestivo, da Dante sino ai contemporanei, rispetto alla sua insaziabile curiosità, alla sua inestinguibile sete intellettuale. Non vi è in Ulisse l’azione finalizzata alla meta agognata, da raggiungere per soddisfare un proprio imprescindibile desiderio e passare così a una condizione di appagata stasi, nutrita dalla ciclicità delle stagioni e dalle certezze ancestrali radicate in illo tempore; Ulisse è icona di modernità proprio perché si pone obiettivi che, una volta raggiunti, ne inneschino degli altri, corollario di un desiderio che si autoalimenta per non consumarsi, per rimanere, paradossalmente, inappagato.

Di nuovo in mezzo ai flutti,

in balia di Nettuno…

Ulisse, da chi fuggi?

Da tutti e da nessuno.

Non ti colma la vita.

La mia sete è infinita.

Una moglie fedele?

Più dolce assai del miele…

E la cura del regno?

Non basta al mio disegno.

La fama imperitura

non tacita la brama

del molt’accorto ingegno?

Mi resti dopo morto.

Allora mai vedremo

convertito il tuo remo

in pala per il grano?

Sarebbe vano, temo.

Inseguo il colpo d’ala.

Il moto perpetuo è “(..) una rivolta/ di viscere aggrappate alla vita, / come le dita sulla scabra roccia” (Per grazia ricevuta, vv. 14-16) ; il moto perpetuo è la revoca del “bando doloroso” di chi sente di essere vecchio e decide di rinunciare a qualcosa, salvo poi concedersi “una prova d’appello” per toccare ancora una volta il cielo, come nei versi di In cima al Cevedale.

L’anima, seppur abbrutita dai germi della “nostra meschina supponenza”, accoglie e cova al proprio interno il fuoco residuo della sua origine, quella scintilla di nobiltà in cui risiede la ragione dell’indulgenza con cui l’io poetico osserva i suoi simili, consegnando loro la speranza del ravvedimento e del superamento di quella dimensione “troppo umana” che ne ottunde la sensibilità più profonda.

La gente, magari, non era proprio

degna di tanta dedizione:

una tigre in gelatina

dal sorriso tagliente,

un kamikaze temerario,

un padre scialbo da operetta,

un balbo corridore solitario,

un ragazzo impertinente,

sembravano accozzati

per licenza della sorte

in un fatuo campionario

della nostra meschina supponenza.

Poveri diavoli in difetto,

finiti in mezzo a quegli scogli ingrati,

per sfida, per noia o per dispetto…

Ma il piccolo rifugio

non se ne dava per inteso,

prodigo solo di premure.

Forse aveva compreso

che sotto ogni movente troppo umano

urge una brama più grande,

un seme arcano di felicità.

(Il piccolo rifugio, vv. 19-40)

La sensualità, profumo stordente di natura, assume i connotati di un movente vitale che scorre e riempie i meandri del quotidiano come l’acqua il letto del fiume, lasciando baluginare sulla liquida superficie scaglie di luce e di vivaci colori, inviti involontari e sottili che affiorano improvvisi e chiedono di essere colti.

Quel canto sommesso incatena:

vi urge una pena soave

d’inviti delusi,

desideri racchiusi

in un velo di note.

Così mi chiama,

senza volere,

così mi attende

la mia sirena

persa in faccende.

(Il canto della sirena, vv. 5-14)

Il moto dell’amore, come il moto perpetuo della vita, è circolare, si nutre di se stesso; rifugge la limitatezza e tende all’universalità, vuole colmare vuoti e silenzi, valicare i confini del reale per albergare come pensiero dominante tra i fantasmi della mente e nei recessi più profondi dell’anima.

Oh, portami con te tra i tuoi fantasmi,

dentro le tue grotte,

in carne ed ossa, desto.

Ecco, ti sei mossa…

(Notturno, vv. 12-15)

Un moto circolare che significa infinito, originato da un motore primo che accoglie “questa nostra terra, cara e dannata” nel suo grembo e si fa garante della sua rinascita “fuori del tempo” (Il grembo di Dio). La stabilità di un patto mitico che affonda le proprie radici nella notte dei tempi è rimarcato da versi musicali e ritmati che veicolano immagini e significati di felice icasticità; del mito ci pare così di cogliere la semplicità e la solenne sacralità del momento iniziale, in cui nell’uomo fu probabilmente impresso il segno di un più alto e universale moto perpetuo.

E lungo tra i flutti s’udì calare,

a folate col vento,

su tutti i sommersi un vecchio lamento,

finché all’orizzonte, a specchio del mare,

un ponte iridato apparve ad un tratto

e fu per sempre la firma di un patto.

(Il patto, vv. 10-15)

Giuseppe Langella, Il moto perpetuo, Nino Aragno Editore, Torino, 2008.

Il poeta

Poeta di parca vena, ha esordito con otto Escursioni (nell’opera collettanea Ascensioni umane, Grafo, Brescia 2002), pubblicando a seguire Giorno e notte. Piccolo cantico d’amore (San Marco dei Giustiniani, Genova 2003) eQuasi una trenodia («Poesia», marzo 2007). Con la raccolta Il moto perpetuo (Aragno, Torino 2008), finalista al Dessì e al PontedilegnoPoesia, ha vinto il Premio Metauro. Nel 2013 ha dato alle stampe, nella “Lyra” di Interlinea, La bottega dei cammei. 39 profili di donna dalla A alla Z, Premio Casentino 2015. Di recente è uscito un suo Reliquiario della grande tribolazione. Via Crucis in tempo di guerra (Interlinea, collana “Passio”), ispirato al calvario della cosiddetta ‘guerra bianca’, combattuta sul fronte alpino in alta quota (secondo classificato al Premio Alpi Apuane 2015, sez. poesia edita). A Ponte di Legno, “paese della poesia”, gli è stato dedicato un totem con incisa una sua lirica. Con Guido Oldani è tra i fondatori del “Realismo terminale”.

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