Giorgio Girelli: “Il vero “truffato” fu De Gasperi”
Giorgio Girelli: “Il vero “truffato” fu De Gasperi”
Ricorre il 67° anniversario della scomparsa del grande statista italiano
di GIORGIO GIRELLI*
PESARO – Ricorre il 67° anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi, grande italiano. Parlando di suo padre, Maria Romana ha evidenziato “l’uomo che aveva amato la politica come la cosa migliore per educare un popolo ai temi della libertà, della giustizia e dell’impegno per il bene comune”.
Un politico dunque che ha indicato obiettivi e sui quali ha chiesto il consenso. Il vero politico non insegue gli umori, i pregiudizi – che quasi mai coincidono con il bene comune – di certi elettori per ottenerne il voto. Ma a che pro? Evidentemente per mantenere il proprio posto.
Mentre nel primo caso è il bene del popolo ad essere in prima linea. Tornano alla memoria le parole di Draghi allorquando nel 2016 fu insignito del premio De Gasperi: “La ragione ultima di esistenza di un governo consiste…nel preservare le libertà e i diritti individuali insieme ad un’equità sociale”. Ed al popolo De Gasperi associava la sua massima espressione democratica, il Parlamento specchio delle sue varie tendenze culturali del Paese.
Da eleggersi con sistema proporzionale, pur temperato da un premio per chi avesse comunque già raggiunto la maggioranza. Obiettivo che lo Statista cercò di perseguire con la legge maggioritaria del 1953. Non si trattava quindi di trasformare una maggioranza relativa in maggioranza assoluta, ma solo di rafforzare una maggioranza assoluta già espressa dal corpo elettorale. L’intento era di potenziare il carattere centrista del governo emancipandolo dai condizionamenti della destra. In effetti una parte dell’elettorato acquisito nel 1948 non era propriamente della DC, ma le era stato “prestato” da conservatori non sempre illuminati. Condizionata anche da quel “prestito”, la DC non riuscì a realizzare appieno il suo programma. Ad esempio l’ala destra del gruppo parlamentare guidata dal deputato palermitano Carmine De Martino si oppose a lungo alla riforma agraria. Per soli 57.000 viti il premio non scattò.
Il partito comunista aveva predisposto una poderosa macchina elettorale. In una lettera della direzione del PCI del 19 marzo 1953 a “tutte le Segreterie Federali” sulle “Direttive di lavoro in occasione delle elezioni per il secondo Parlamento della Repubblica” si legge “Occorre pertanto che le Commissioni elettorali sezionali costituiscono dei Comitati di seggio, uno per ogni seggio, ai quali affidare tutto il lavoro verso il gruppo di elettori di ciascun seggio. Sarà quindi necessario utilizzare i Comitati di cellula, debitamente rafforzati e riveduti, a ciascuno dei quali affidare un seggio elettorale da curare”. E massiccio fu lo sforzo per far annullare, con i più vari pretesti, le schede non gradite. Il voto del 1953 impegnava un elettore sicuramente ormai più provveduto di quanto poteva esserlo quello delle precedenti elezioni del dopoguerra. Eppure alla Camera, per la quale poteva scattare il premio, rispetto al 1948 le schede nulle passarono da 393.200 a 846.335.
A conclusione dello spoglio il ministero dell’interno fece diffondere il seguente comunicato: “In base alle segnalazioni pervenute al ministero dell’Interno risulta che i voti mancati ai quattro partiti collegati per il conseguimento del premio di maggioranza ammonterebbero a 57 mila. Per contro, vi sono circa 1 milione e 300 mila schede contestate e non attribuite, che rappresentano una percentuale più che doppia di quella registrata nelle elezioni politiche del 1948. La cifra elevata di voti non attribuiti è da mettere in rapporto alle precise istruzioni impartite dalle opposizioni per sollevare il maggior numero di contestazioni, al fine di impedire il conseguimento del premio di maggioranza.” Mi raccontò Andreotti, per citare un caso, che “a Frosinone vennero annullate 10.000 schede in quanto erano state indicate le preferenze con numeri corrispondenti ai candidati De Gasperi, Andreotti e Fanelli, ma non il simbolo”.
Commentò in un suo libro del 1989 Federico Orlando: “De Gasperi e Scelba avrebbero potuto differire di qualche giorno la proclamazione dei risultati e cioè dopo il controllo nelle schede contestate, nelle quali era nascosta ampiamente la maggioranza per i partiti apparentati.” Sicchè, in effetti, se “truffa” vi fu, non fu certo quella di una legge più che corretta, ma nella alterazione dell’effettivo voto popolare. Ma non venne inoltrato ricorso. Ed a proposito di “truffa”, in una conversazione che ebbi con lui su quella legge elettorale, Scalfaro quasi sbottò: “Premiare chi ha vinto non è truffa, deplorevole è che anche la maggioranza acquisisca la terminologia mistificatrice della opposizione”. E sempre Scalfaro mi precisò: “De Gasperi e Scelba ritennero acquisito che ormai si era perso psicologicamente e che la opinione pubblica avrebbe considerato un cerotto un intervento sulle schede. E’ stato un passo di intelligenza politica quello di non fare ricorso”.
Oggi voci autorevoli tornano a parlare di centrismo riscontrando “la congenita idiosincrasia al bipolarismo del sistema politico italiano”. Sistema elettorale maggioritario, bipolarismo possono essere esaltati sui libri ma calarli nella realtà sociale è ben più complesso. Non solo per la democrazia ma anche per i sistemi elettorali l’ “esportazione” è problematica. E quando oggi si parla di maggioritario si scorda che la legge per funzionare deve essere in sintonia con le culture delle basi elettorali dove si condensano mentalità, consuetudini, storie.
Altrimenti le norme sono abiti impossibili da indossare. Cantava Carosone: “Tu vuo’ fa l’americano, ma se’ nato in Italì”. Ed in tempi di “seconda” Repubblica “maggioritaria” ci sono due esempi clamorosi, assai trascurati dalla pubblicistica, che attestano come nello stesso “tempio” – il Parlamento – della massima proiezione del “maggioritario” sia impossibile forzare la “natura” della base politica di un Paese. I gruppi parlamentari , in pieno maggioritario, sono stati più numerosi di quanto non lo fossero nella cosiddetta “prima” Repubblica, con Parlamento eletto su base proporzionale. Anzi sono spuntate pure le “componenti” (cioè sotto-gruppi) ufficializzate nelle pubblicazioni parlamentari della “seconda” Repubblica.
Inoltre: le norme sulla composizione del Consiglio di Presidenza del Senato sono state cambiate per consentire la “rappresentatività” (alla faccia del criterio maggioritario) anche a “quei gruppi parlamentari” che (per esiguità di membri) ne siano rimasti privi prevedendo “che si proceda alla elezione di altri Segretari” (comma 2-bis, art. 5, Reg. Senato). Sforamento che la “proporzionalissima” prima Repubblica non avrebbe mai consentito. L’Italia non vive lo schema semplificato dello scontro “indiano-cowboy”. Il sistema elettorale deve consentire una trasparente fotografia del paese, senza stratagemmi artificiosi che si frantumano, come è accaduto, un attimo dopo le elezioni. Le alleanze le fa l’uomo, non il sistema elettorale che non può essere un rassicurante pilota automatico, almeno in Italia.
Altro che :“si deve sapere la sera della giornata del voto quale governo andrà alla guida del Paese” ! E certi “semplificatori” dovrebbero spiegare con quale coerenza danno vita a governi dissociandosi dalla propria coalizione ed alleandosi con forze che in campagna elettorale hanno aspramente combattuto. E’ questo il metodo perché il cittadino sappia subito per quale…governo ha votato? Nel sistema italiano non è ipotizzabile un rapporto immediato tra cittadino che vota ed istituzione governativa che nasce, con sostanziale by-pass delle forze politiche chiamate a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
La nostra è una democrazia parlamentare rappresentativa, con il popolo che esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ed è compito dei politici fare abilmente e responsabilmente la loro parte in base a ciò che urne esprimono trovando raccordi e soluzioni. Come fece De Gasperi, e per lunghi decenni l’intera DC. La “proporzionale”, magari corretta, serve ad un paese “speciale”, “troppo diviso internamente” da sempre. Dai tempi dei Comuni e delle Signorie. Con diversi stati al suo interno per secoli. Ed anche individualista, con scarso senso civico (casa linda e marciapiede sozzo). Retroterra ben diverso da quello degli Stati Uniti, o della Gran Bretagna. E comunque con quel sistema elettorale l’Italia ha realizzato in poco tempo grandi opere (autostrade ), ha fatto riforme, ha smosso il mercato mondiale del petrolio, ha istituito la scuola dell’obbligo, ha introdotto la sanità universale, ed inoltre, “uscita in ginocchio dalla guerra, grazie proprio alla sua Democracy Italian Style, era riuscita a diventare la quinta potenza economica del mondo”.
*Coordinatore del Centro Studi Sociali “Alcide De Gasperi”
Ag – RIPRODUZIONE RISERVATA - www.altrogiornalemarche.it